Puoi amarla meglio adesso, Giuliana; ora che hai scoperto che la sua bellezza deriva da tutto questo dolore. Il dolore degli scampati, la sua famiglia inghiottita intera dalla terra, che ha sputato invece fuori lei, come il nocciolo di una pesca matura.
Quella pesca che lei si rotolava tra le mani, mentre parlava con la madamina, la vecchia maestra del paese, la notte che l’hai conosciuta, occhieggiandola da lontano. Si dondolava in bilico su una sedia, il ginocchio piegato sul sedile e l’anca sullo schienale, a tenersi in equilibrio. La gonna lunga le scendeva in drappi eleganti sui fianchi e sul piede che sbucava dalla gamba piegata; pareva la Madonna di legno che portano in processione il venerdì santo, la pelle eburnea, illuminata dalla luce della luna, che le scandiva i contorni netti del viso con un riflesso di madreperla.
Ogni tanto si scostava una ciocca ribelle dal bel viso, e la infilava in una crocchia disordinata, tenuta ferma da una matita, che non bastava a domare la quantità di capelli neri, lunghissimi e folti; e con cadenza che sembrava studiata, la ciocca ricadeva e la costringeva allo stesso gesto, meccanico e dolcissimo insieme, segnato dall’abitudine.
“Era una notte calda, anomala per la tarda primavera, che aveva fatto venir voglia a tutti i compaesani di riunirsi sotto il pergolato del bar del paese a mangiare pane con le olive e bere vino giovane, di quello che da subito in testa.
La luna immensa illuminava la piazza, pareva appesa come una palla di Natale.
Mamma e papà ballavano abbracciati come due giovani innamorati; anche io ero in mezzo alla piazza e, complice il vino, ballavo a occhi chiusi, al chiaro della luna. Avevo i piedi nudi, e giravo, giravo, giravo… come un derviscio in una danza indiavolata.
Tutto girava intorno a me, ma quando mi resi conto che non era colpa del ballo e nemmeno del vino, era troppo tardi.
Un suono gutturale, come di immenso animale ferito, arrivò all’improvviso dal cuore della terra.
E tutto prese ad oscillare intorno a noi; la terra sotto i nostri piedi divenne un enorme tappeto sbattuto da una mano gigante, che ci tagliava le gambe facendoci cadere sotto i colpi pesanti delle onde; il suolo era un mare in tempesta e noi ci tenevamo aggrappati dove potevamo, come naufraghi disperati.
Dissero poi che non durò più di un minuto, ma parvero ore e la devastazione fu totale.
Mi trovarono sotto un cumulo di macerie, bianca di polvere che parevo la Madonna del venerdì Santo, mi dissero.
Al mio risveglio non c’era più niente.
Solo la notte.
Che da allora si è impossessata della mia vita.”
Ti racconta tutto questo in una notte di luna nuova, uno spicchio bianco come un’unghia a graffiare il sipario dell’oscurità, le ginocchia raccolte sotto il mento, rannicchiata, a sputar fuori tutto il suo dolore, lacrime come acqua da una spugna strizzata.
Puoi onorarla adesso, Giuliana; ora che conosci la sua stanza buia; nella buona e nella cattiva sorte, finché morte non vi separi.
Il racconto “La Stanza Buia” è stato pubblicato nell’antologia “Voci di Notte”, a cura di Associazione Miro.