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Ponte di Brooklyn

(Sex and the City, 12 anni e un viaggio a new York dopo. Di felicità, sensi di colpa, matrimonio, paure e altre amenità)
Non ho grande dimestichezza con la felicità.
L’ho evitata spesso, con quel terrore un po’ infantile delle cose sconosciute, e un pizzico di superstizione alla Charlotte (visto il riferimento televisivo): non può succedere davvero, non a me, non può arrivare davvero tutto ciò che desideravo, e soprattutto non può durare.
E attendo guardinga la fregatura dietro l’angolo.
L’ho sempre creduta qualcosa di effimero, che ti capita addosso senza averla cercata, e che spesso ti costringe a giustificarti col resto del mondo e ti fa sentire un po’ colpevole.
Perché diciamo la verità, nella stragrande maggioranza dei casi, ci piace assai raccontare agli altri i nostri cazzi amari, cercando conforto e spesso condivisione.
Le sfighe degli altri ci riesce sempre benissimo accoglierle e compatirle.
Con la felicità la faccenda si fa più complessa, e la capacità degli altri di accogliere le nostre gioie e non le nostre pene, spesso è un grande metro che misura la vera natura di chi ci sta attorno.
Nei periodi bui succede spesso di circondarsi persone con acciacchi dell’anima peggio dei nostri, confortati dal proverbiale “mal comune mezzo gaudio.”
È che spesso di gaudio non ce n’è, e quando arriva – cazzo! – passata l’incredulità iniziale, subentra un subdolo senso di colpa che ci rende difficile il compito di raccontarla, quella felicità, senza esibirla come un trofeo, e senza compatire il prossimo tuo con frasi fatte che suonano più come un premio di consolazione che come autentico sentire.
Non ho dimestichezza con la felicità io: amo le canzoni struggenti, le citazioni a cazzo di “Collisioni Festival”, le vignette degli Amori Sfigati, i film come “Pretty Woman” e “Dirty Dancing”, e le serie tv come Sex and the City, che sembrano sapere tutto delle relazioni amorose, e che ti fanno credere che ci sarà sempre un lieto fine alla “Miranda e Steve sul ponte di Brooklyn”.
Beh, io il mio ponte di Brooklyn l’ho già percorso avanti e indietro una dozzina di volte.
Mi è toccato andarci, e passeggiarci sopra, mano nella mano con l’uomo della mia vita per capire che la felicità è una cosa tangibile e concreta, che ti sbatte addosso senza alcun merito forse, ma che ti fa capire senza ombra di dubbio cosa è importante tenere e chi tenersi stretto.
E che non sempre per scrivere grandi finali serve attraversare la tempesta.
E soprattutto, che se lieto fine deve essere, lo sia fino in fondo, accantonando la paura di perdere tutto, il senso di colpa, e la tendenza a sminuirla quella felicità per non urtare il prossimo.
E che, in ultima analisi, sento di meritarmelo un lieto fine con incluso un mega armadio in un superattico sulla 5th Avenue.
Non era nei piani tutta questa felicità inaspettata, che a volte non so maneggiare, e che la vita mi ha gettato in mano senza libretto di istruzioni.
La prima volta è successo con un neonato, e avevo lo stesso identico senso di straniamento.
Prendersi cura di un perfetto sconosciuto che ho imparato ad amare nei mesi e negli anni.
Così è la felicità: una presenza estranea con cui prendere confidenza un po’ alla volta.
Ed è così è successo a noi.
Che ci siamo trovati a scrivere un inizio inaspettato e un lieto fine tutto da programmare.
E una sola, solida certezza: forse non sarà in un attico sulla 5° strada, ma a noi bastiamo noi.

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