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New York City

Non c’è giorno in cui non pensi a quanto mi manca viaggiare, la prospettiva di scoprire un posto nuovo, la promessa, mai disattesa da almeno dieci anni, di visitare un luogo dove non sono mai stata ogni anno.
Un anno fa ero in procinto di partire per New York, un viaggio particolare, che non avevo nemmeno programmato, che è arrivato improvviso come tutte le cose belle e che è stato difficile da metabolizzare e raccontare.
Un viaggio che portava dentro di sé tutte le definizioni di viaggio possibili, date da centinaia di scrittori e poeti nel corso dei secoli: la partenza come metafora di vita, che mai come in quel momento segnava la fine di una situazione tossica protratta troppo a lungo inutilmente, e soprattutto segnava un nuovo inizio carico di aspettative e significati.
Un viaggio che era stato un dono – il primo vero viaggio dopo la nascita di Davide – per come era arrivato e per chi mi ha accompagnata in quella splendida avventura.
Un viaggio che è stato un affrancarsi, una ricongiunzione, una riconciliazione, una risposta.
Un viaggio goduto in ogni sua sfumatura, in un luogo che ti entra nell’anima e non ti da più tregua.
Ho letto recentemente un articolo che parlava del lento declino di New York a causa dello stravolgimento delle abitudini portato dal covid.
Della gente che non vuole più perdere ore nel traffico per recarsi al lavoro, dei ristoranti vuoti, del recupero di certi valori – la calma, la condivisione, la riscoperta degli affetti – del disastro sociale che l’emergenza ha portato, ai limiti della guerra civile, in una città che non dorme mai, non si ferma mai, che fino a pochi mesi prima pulsava di vita frenetica ad ogni ora del giorno e della notte e che invece ora sta morendo lentamente.
Parlandone con Lui ci siamo chiesti se non abbiamo avuto la fortuna, per una incredibile coincidenza, di vedere New York per l’ultima volta.
La New York che abbiamo conosciuto è un grande animale sornione – nella mia testa l’ho sempre associata ad un gatto, chissà perché – che ti conquista a poco a poco, con le sue contraddizioni, il suo essere così mutevole, ruffiana, romantica, spavalda, aggressiva, talvolta violenta nella sua bellezza e per come te la sbatte in faccia.
A New York abbiamo camminato come pazzi.
C’è una foto che meglio rappresenta quella breve ed intensa vacanza, e in qualche modo noi due come coppia: i nostri piedi in movimento mentre camminiamo la sera ad Hell’s Kitchen.
Una foto sfuocata, non particolarmente bella.
Ma senz’altro autentica.
E come tutte le foto autentiche, è stata scattata inconsapevolmente, forse mentre riponevo il cellulare in borsa.
Camminare è sempre stata la nostra sigla, ci penso spesso, e forse per questo quel nostro viaggio ce lo siamo goduto più di altri.
Perché abbiamo consumato tanta suola delle scarpe, come Lui ama tanto ripetere, e continuiamo a farlo nel nostro cammino insieme.
Non è un caso se uno dei miei scritti a cui sono più affezionata, descrive quel suo modo di camminare da trampoliere dai passi lunghi, a fianco a me, dal passo posato: resistenza e solidità, un mix perfetto per i lunghi cammini, per testare le suole di scarpe, e soprattutto per costruire.
Costruire, una delle mie canzoni preferite.
“Chiudi gli occhi
ed immagina una Gioia,
molto probabilmente
penseresti a una partenza…
… Ma tra la partenza e il traguardo
In mezzo c’è tutto il resto
E tutto il resto è giorno dopo giorno
E giorno dopo giorno è
Silenziosamente costruire
E costruire è sapere
E potere rinunciare alla perfezione.”
Uno dei ricordi più belli belli di quel viaggio è stata la passeggiata sulla High Lines una mattina prestissimo. (No, non la visita alla casa di Carrie Bradshow, a dispetto della mia foto profilo!)
In così pochi giorni abbiamo faticato a smaltire il jet lag.
Io mi svegliavo sempre intorno alle cinque del mattino e iniziavo a rigirarmi nel letto; allora Lui mi agganciava tra le gambe e mi sussurrava “prova a dormire ancora un po’”, come facevo con Davide bambino quando al sabato mattino si svegliava troppo presto.
Riuscivo a riprendere un sonno leggero e agitato, ma fuori c’era una città da scoprire e puntualmente prima delle 8 eravamo per strada, pronti a macinare chilometri.
Quella mattina presto sulla High Lines non c’era nessuno.
Non c’era nessuno per strada, nemmeno nel Meatpacking district, di cui ci siamo goduti lo spettacolo dall’alto della ex-ferrovia prima di inoltrarci fra le sue case di mattoni, nessuno sui binari riconvertiti in una maniera pazzesca con parchi, locali, punti di ristoro, installazioni artistiche.
(Un minuto di silenzio per la nostra Sopraelevata…)
Nessuno.
Solo noi due, a camminare mano nella mano, e qualche sporadico newyorkese che faceva jogging.
Ho scoperto di recente che in tempi di coronavirus anche la Highline aveva chiuso e ha riaperto solo un mese fa, con accessi limitati per evitare l’affollamento.
L’abbiamo percorsa tutta, su e giù, e poi di nuovo su, prima di scendere e tornare in centro.
E l’immagine di noi due (quei due…) a camminare sulle grandi assi di legno che coprono la Highline è diventato uno di quei ricordi che ti tengono caldo in inverno e ti strappano sempre un sorriso.
Mi dico che forse è anche per questo che questo periodo ci sta così stretto: perché noi siamo in cammino, in continuo movimento e sembra proprio che covid abbia fatto di tutto per infilarci nelle sabbie mobili.
La scorsa primavera i giorni passavano lenti e tutti uguali. Ma sono volati.
Come è volata via quell’estate, che odora già di sottobosco e pioggia di settembre.
Eppure la sensazione è quella di trovarsi sempre allo stesso punto.
E la malinconia che mi coglie quando ripenso ai nostri viaggi, a QUEL viaggio in particolare, è così struggente da rendermi ancora più duro questo isolamento forzato.
A ben vedere in fondo, hanno solo allargato un po’ le sbarre della nostra prigione.
Un male necessario, ma non meno doloroso.
Perché a pensarci bene forse davvero nulla sarà più come prima.
Mi chiedo quand’è che torneremo di nuovo ad abbracciarci, quando la smetteremo di guardarci con sospetto, quando ricominceremo una vera vita sociale, quando ogni distanziamento sarà finito.
Mi chiedo come sarà d’ora in avanti approcciarci ad uno sconosciuto, quanta diffidenza dovremo ancora scrollarci di dosso, che valore daremo al tempo e allo spazio, come muteranno nel profondo le
relazioni interpersonali.
Quanti primi baci saranno rovinati dal terrore di infettarci e di mettere a repentaglio la salute dei nostri cari?
Quanti amori moriranno soffocati dalla paura e dalla diffidenza?
Quanto coraggio dovremo raccogliere per rimetterci in gioco nella vita di tutti i giorni?
Perché saltare su un aereo mi manca da morire, ma la vera sfida oggi è salire sul treno per andare al lavoro.
Non ne usciremo migliori, perché le nostre meschinità si sono palesate fin dai primi giorni, e la facilità con cui abbiamo rimosso i duri giorni di lockdown dimostrano la nostra piccineria e il nostro menefreghismo.
È che è difficile metabolizzare i ritmi lenti che questa situazione ci sta imponendo.
Che se da un lato abbiamo riscoperto certi valori, dall’altro ci stiamo facendo mangiare dalle paure e dalle ipocondrie, come canta il Maestro.
Il nostro cammino non si ferma, il mio con Lui intendo, e per adesso abbiamo imparato a sostituire il suo passo lungo al mio passo lento e posato.
E anche se ogni tanto scalpito, so che la meta è lì e non si è spostata di un centimetro.
Anzi.
Ogni centimetro ce lo saremo guadagnato consumando suole su suole di scarpe.

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