Fatelo senza rumore, quel botto.
Siate discreti, gentili, silenziosi.
Abbiate rispetto per quel vuoto che è già lì, destinato a restare e che si è preso tutto.
Niente sensazionalismi, luci abbaglianti, strombazzamenti.
Non eravamo ancora pronti a quest’ultimo saluto.
Quel gigante, che ci ha lasciati due volte e in due modi diversi, quando meno ce l’aspettavamo, e davvero nei guai.
Lasciateci sussurrare il nostro addio, da lontano, nelle nostre case che abbiamo dovuto abbandonare, negli uffici che facciamo sempre più fatica a raggiungere, abbracciando i nostri figli, noi che possiamo ancora.
Fate piano, per carità, che ci sentiamo fragili, in bilico, come quell’ultimo moncone.
E conosciamo la paura che da quel 14 di agosto non ci abbandona più, e ci si incolla addosso come i vestiti sudati in queste giornate torride di fine giugno.
Che ancora non siamo pronti a cambiare l’orizzonte del nostro sguardo e immaginarlo vuoto, senza quel ponte di Brooklyn a tenere insieme la nostra citta’.
Siamo restii al cambiamento noialtri, eppure rassegnati ce ne stiamo in disparte, ad ascoltarvi farneticare di progetti e responsabilità.
E per parte nostra finiamo sempre per adattarci, magari mugugnando un po’, e questa volta con la morte nel cuore.
Fatela piano quest’esplosione, che di traumi Genova ne ha conosciuti fin troppi in questi anni.
Prendeteci per mano e accompagnateci verso quest’ultimo commiato, che letteralmente la terra ci trema sotto i piedi, e un po’ temiamo ancora “che ci inghiotta, e non torniamo più.”
Calibrate per bene le parole e i silenzi, come la quantità di esplosivo.
E allora fate piano, per carità.
Che le vibrazioni di quell’esplosione non giungano fino ai nostri cuori spezzati; che si sa, noi genovesi siamo selvatici, sarveghi, e non siamo nemmeno capaci di dirlo quanto male ha fatto quel disastro avvenuto in una piovosa mattina di metà agosto.
Quanti ricordi si è portato via, insieme a 43 vite, di fughe, vacanze, arrivi, partenze, passaggi distratti oppure cercati, di speranze, sogni futuri, prospettive nuove e il conforto tiepido di chi torna a casa.
Abbiate pudore, per quelle 43 famiglie che il vuoto che lascia una deflagrazione lo conoscono, e lo vivono ogni giorno.
Abbiate decenza, per gli sfollati, per chi ha perso tutto, la casa, il lavoro, gli affetti, e per chi lì sotto ancora ci vive, in una terra di nessuno, a respirare polvere e amianto, e a chiedersi ogni giorno se il futuro da grigio cambierà mai colore.
Abbiate cura dei genovesi che si portano addosso il fardello di essere ancora vivi come una colpa, un effetto collaterale indesiderato, un peccato da espiare.
Abbiate la bontà di smetterla di prenderci in giro, che qui si è già morti, e ancora si muore.
Abbiate pietà, dei superstiti, dei feriti, delle vittime, di chi se n’è andato e di chi ancora resta.
Fatelo dolcemente, come fosse un’eutanasia, un morire dolce, nel sonno, che porti sollievo, serenità, e una pagina nuova da scrivere, senza proclami e marchette, senza bugie e parole vane.