Sono cresciuta in un’epoca in cui la scuola pubblica era un’eccellenza e maestri e professori erano stimate da tutti.
Sono cresciuta con modelli educativi chiari, ruoli precisi.
Un professore, o una maestra, erano figure autorevoli – talvolta autoritarie – cui ci si doveva rivolgere con rispetto ed educazione.
Nessun lassismo, nessun permissivismo, nessuna libertà, nemmeno con coloro che si rivelavano più aperti nei confronti degli alunni.
La complicità era spesso una componente fondamentale della relazione insegnante/alunno, ma il gioco delle parti rimaneva immutato: insegnante – alunno.
E nessun genitore si sarebbe mai sognato di mettere in discussione questa realtà, o peggio di salire in cattedra pensando di saper fare di meglio.
Così come un genitore era un genitore, non un amico o una specie di avvocato pronto a difenderti anche di fronte all’evidenza schiacciante.
L’uscita da scuola con una nota sul diario o un 4 di latino era l’anticamera dell’inferno: mia madre sapeva riconoscere una giornata storta persino da come suonavo il campanello, e io tremavo a pensare cosa mi aspettava a casa.
Temevo i cazziatoni di mia madre, e di mio padre, come poche altre cose al mondo.
Temevo le punizioni, le settimane intere senza parlarmi, le ramanzine.
Avevo appreso una delle lezioni fondamentali della vita: ad azione corrisponde conseguenza.
Quando mia madre andava ai colloqui coi professori passavo interi pomeriggio con la morsa allo stomaco in attesa dell’esito.
Per non parlare della consegna delle pagelle.
Sono sempre stata brava a scuola ma ho sempre avuto un temperamento ribelle, per cui ai 7 e agli 8 in latino, inglese e storia, si affiancava immancabile l’8 in condotta, onta della mia generazione, cui non mi sono mai voluta piegare, nemmeno in quinta superiore, in vista dell’esame di maturità.
Ciò nonostante ho saputo trovare bravi maestri e maestre sulla mia strada, che hanno saputo apprezzare il mio valore, la mia maturità, la mia serietà.
Lo racconto sempre: il mio amore per la storia dell’arte mi è stato trasmesso da una maestra straordinaria delle elementari, la mitica maestra Gianna.
Gli adulti che sono stati genitori quando io ero bambina, si affidavano agli educatori, cui riconoscevano merito e ruolo, pedagogico ma anche di maestri di vita, e CI affidavano alle loro cure e ai loro insegnamenti ad occhi chiusi, senza mettere mai in discussione il loro operato.
Non ho mai sentito pronunciare a mia madre, né per quanto riguarda me, né per quanto riguarda mio fratello, la fatidica frase: “Poverino, lui studia tanto, ma il professore ce l’ha con lui.”
Lei partiva dal principio opposto. Noi eravamo schiene dritte da raddrizzare, e i professori hanno sempre ragione.
Mi chiedo se questo rispetto, che ormai si è perso del tutto, non provenisse da un retaggio antico, di famiglie di operai, contadini, magari immigrati al nord, che erano spesso persone che non avevano potuto studiare, e sapevano di offrire ai figli la grande opportunità a loro negata: studiare.
Quindi, cosa poteva fare un contadino analfabeta, incapace persino di aiutare i propri figli a fare i compiti, se non affidarsi ciecamente al Maestro, con la M maisucola, quello che a differenza sua aveva studiato e poteva formare il figlio e fornirgli un futuro migliore?
Oggi tutto questo si è perso.
La cultura non è più un valore, chiunque crede di essere colto e informato googlando le notizie su internet e vomitando insulti e opinioni non richieste su facebook.
I genitori poi sono diventati la categoria peggiore: sono diventati avvocati difensori dei propri figli, convinti di avere tra le mani la perla che cambierà il mondo. I figli sono diventati intoccabili semidei da difendere a spada tratta, qualunque cosa succeda.
Forse per sopperire alle proprie mancanze, che fanno dei pre e post adolescenti dei tiranni per non dire dei disgraziati, i genitori aggrediscono senza alcun raziocinio chiunque osi alzare la mano sui propri figli.
Maestri ed insegnanti compresi.
Si arrogano il diritto di sindacare sul loro operato, liquidano con faciloneria gli insegnanti come “nullafacenti”, come lavoratori part-time o come quelli che “tanto si fanno tre mesi di ferie l’anno”, con una supponenza e un livore che fa vomitare bile a me, che insegnante non sono, figuriamoci ai diretti interessati.
Questa decadenza di morale, costumi ed etica ha portato ieri ad una legge agghiacciante, che permetterà di posizionare (a spese della struttura) telecamere negli asili.
Ora, non fraintendetemi: abbiamo assistito purtroppo ad episodi gravi, e reali.
Ma come sempre è la soluzione che a me fa tremare i polsi.
Anziché ripensare il sistema educativo e scolastico dalla base (perché persone con evidenti problemi e del tutto inadeguate ad occuparsi di bambini sono finite a fare le maestre? Come sono state reclutate? Che formazione avevano? Quali corsi di aggiornamento hanno seguito? Avevano una preparazione psicologica e pedagogica adeguata? Dov’è chi doveva vigilare su tutto questo?), e provare a mettere gli insegnanti in grado di fare il proprio mestiere, si preferisce correre ai ripari con una soluzione che nemmeno Orwell avrebbe potuto immaginare nel peggiore dei suoi scenari: il controllo.
La scuola diventa un luogo pericoloso, in cui non è raccomandabile lasciar soli i bambini se non sotto stretta sorveglianza.
Delle telecamere, non delle maestre.
Il rischio di creare allarmismi inutili e di mettere ancora una volta sotto processo l’operato di insegnanti validissime, è dietro l’angolo, anche se i filmati potranno essere visionati solo da polizia e carabinieri.
Ma non riesco a smettere di chiedermi quand’è successo che il patto di fiducia che regolava la relazione tra insegnanti e genitori, si è perso.
E provo tanta amarezza.
Non dico di tornare ai bambini che portavano la mela alla maestra; ma le telecamere non possono essere la soluzione.
Una buona educazione, dei genitori, prima ancora che dei figli, è il primo passo per riappropriarci della nostra, vera, buona scuola.