Cosa pensate quando incrociate per strada una coppia mista? Siate sinceri, dai.
Faccio qualche ipotesi (molto politically uncorrect):
Lui nero – lei bianca: lei sta con lui solo perché ce l’ha grosso; lui sta con lei solo per i soldi/documenti
Variabili possibili:
Potrei andare avanti.
E chiedervi cosa elabora il vostro cervello quando con la coda dell’occhio vedete passare un ragazzo vestito in maniera eccentrica, magari coi codini, le espadrillas giallo canarino e una tracolla Louis Vitton.
Oppure una coppia italianissima, dove lei sembra uscita dal catalogo di Victoria’s Secret, mentre lui pare la brutta copia di Woody Allen. E magari spingono nel passeggino un bimbo cinese o africano.
O se invece fosse lui a spingere lei su una sedia rotelle.
Riflettevo su tutto questo l’altra sera quando, mentre bevevo un aperitivo con Pi (leggi il mio maritozzo), ci attacca bottone una bimbetta di 5 anni, con mamma e nonni al seguito. La piccola aveva un sacco di curiosità da soddisfare (ma perché lui è nero? E tu – rivolta a me – però non sei nera… ma che lingua parli?) e la mamma che con fare affettato la corregge e si corregge a sua volta “lui è nero scur, colorato! Perché in Africa – Africa giusto? mi chiede – c’è tanto sole! E parla un’altra lingua perché vive in un altro paese, sai come la bimba tedesca che hai conosciuto l’altro giorno?” e poi butta lì un po’ a casaccio un “però siamo tutti uguali…”
Allora ripenso alla mia educazione, a questo “siamo tutti uguali” che mi è stato inculcato fin dalla prima infanzia, e che si è tradotto in una gentilezza ostentata che mi ha fatto sentire inadeguata persino la prima volta che ho messo piede in Africa, dove ero circondata inesorabilmente solo da neri.
Questo merita una parentesi. Spiego.
Eravamo a questa festa di famiglia, immaginatevi la scena, io e le mie compagne di viaggio, le uniche cinque, fluorescenti, bianche del villaggio, relegate in un angolo a fare da tappezzeria e a subire come animali in gabbia, gli sguardi impudenti delle decine di parenti invitati. Ci si approcciano due tipi viscidoni che cominciano a fare le peggio battute e giù gomitate e risate sguaiate.
In Italia due così li avrei battezzati a dovere. Lì mi sono paralizzata. Perché erano neri. E perché mamma mi aveva insegnato che siamo tutti uguali, e dovevo essere gentile – capite? – altrimenti la mia scortesia poteva essere male interpretata come razzismo.
Ma è di questo che siamo intrisi.
Di razzismo, di machismo, di omofobia.
Da quando papà ti dice “non piangere, sei un ometto” (e piangere è roba da femmine), a quando mamma ti inculca che bisogna essere gentili con tutti, a prescindere dal colore della pelle, dall’età, dal ceto sociale. Pure con quella stronza di 4A che ti ruba sempre la merendina e glielo lasci fare solo perché “poverina ma è nera” (e al suo villaggio mangerà solo riso e banane). Anche se suo padre fa l’Ambasciatore o l’ingegnere aerospaziale.
E pure con la zia Ubaldina, quella coi baffi che ogni volta che ti bacia ti lascia la scia come le lumache. “E dai bacino a zia su…” ti sprona tua madre. E tu vorresti urlare che ti fa schifo ma non puoi. Perché sarebbe scortese. E scomodo, ammettere che la vecchiaia ci mette a disagio. Come la pelle nera, l’odore di fritto o una lingua che non riusciamo a comprendere.
Il siamo tutti uguali non esiste.
Siamo tutti diversi. Ed è questa diversità la nostra principale risorsa, che però non siamo in grado di sfruttare.
Dobbiamo scardinare il pensiero comune, il pregiudizio. Cominciare con la scuola, passando per la famiglia e le istituzioni. Viaggiare, essere curiosi, umili, illuminati.
Perché conosco almeno una coppia per ogni tipo descritto sopra e so che si amano alla follia e lottano ogni giorno per strapparsi di dosso quelle etichette che gli abbiamo incollato addosso, per paura, per invidia, per rabbia.
Penso alle battute che mi accompagnano quotidianamente, nemmeno da quando sto con Pi, ma da quando sono partita per l’Africa la prima volta.
Il caffè prima era solo caffè.
Ora a me il caffè piace lungo e nero. (sic.)
Commenti di questo genere si sprecano.
Per non parlare delle reazioni smodate verso mio figlio; che è bello è vero, bellissimo (e pure ruffiano e ammaliatore non lo nego). Ma quando vedo certi soggetti fotografarlo solo per mostrarlo alle amiche come se fosse un animale raro mi monta una tale rabbia.
Ho fatto dell’autoironia un’arma potente per difendermi dalle male lingue. Prima mi chiedevo come mai i miei amici omosessuali fossero tutti così spigliati, con la battuta al vetriolo sempre pronta sulla punta della lingua. Ora capisco che è l’unica arma di difesa verso le discriminazioni di ogni genere.
Purtroppo è qualcosa che si affina col tempo e con la maturità; per questo quando leggo di ragazzini di 16 anni che si suicidano perché tacciati di omosessualità penso che ancora una volta il branco e la società si accaniscono con ignoranza su qualcuno che non ha ancora affilato le sue armi per difendersi.
Da quando sto con Pi, ho imparato quanto grande sia il potere del pregiudizio che si trasforma, in chi lo subisce, in orgoglio e voglia di riscatto.
Quando va bene.
Quando va male gli esiti sono tragici come le cronache ci hanno recentemente insegnato.
E allora affinate le vostre armi ragazzi, leggete, viaggiate. Scardinate le vostre certezze e le convinzioni altrui, imparate a ridere di voi stessi, fate credere allo zotico di turno che vi si para davanti puntandovi addosso un dito sudicio che è lui l’uomo più furbo.
Ma siate voi a tenere saldi nelle mani gli strumenti per migliorare il vostro futuro e riscrivere una storia diversa.
Canticchiando fra i denti… nessuno mi può giudicare, nemmeno tuuuuuu!!!